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A cosa servono i selfie nel Personal Branding?

Coltivare la nostra immagine è sempre utile al nostro prossimo?
di Anna Fata

 

Ritrarre se stessi e farsi ritrarre: una consuetudine che nasce nella notte dei tempi.
Nella pittura, nell’arte rupestre, nella scultura, nella fotografia, ci è sempre piaciuto farci ritrarre, conservare un’immagine di noi, in un momento ben preciso, con la silenziosa illusione che potesse restare inalterata per sempre.
Un tocco di eternità e di onnipotenza che almeno per un istante nella vita ci ha sfiorato tutti.

Oggi più che mai abbiamo a portata di mano strumenti all’avanguardia che ci consentono d’immortalarci pressoché ovunque e comunque, alimentando quel momento di eternità vissuta che stiamo sperimentando, da soli o in compagnia, e meglio ancora di condividerlo, almeno potenzialmente, col resto del mondo.

 

In che rapporto stanno i selfie, nello specifico, col Personal Branding?

Oggi si passa tra due estremi: foto di sé sbandierate ad ogni piè sospinto, da quando scendiamo da letto, a quando vi ritorniamo alla sera, da una parte, e dall’altra coloro che per timidezza, privacy o senso d’inutilità, condividono a stento una immagine del loro volto o un piccolo particolare d’esso, nella speranza possa bastare per sancire la propria riconoscibilità e ricordo nel pubblico.

Tra questi estremi, cosa è meglio?

Non credo esista un “meglio” o un “peggio”, anche se, forse, l’equilibrio tra gli estremi potrebbe essere auspicabile. Ma, forse, non sempre può essere la soluzione migliore. A volte la memorabilità passa proprio attraverso gli estremi.

Credo che le domande di fondo che potrebbe guidarci nella scelta del proprio stile potrebbero essere:

  • Che immagine desidero offrire di me, della mia persona e della mia professionalità al mio pubblico, potenziale e acquisito?
  • Che immagine ha di me il mio pubblico e quale si aspetta da me?
  • Quali sono i miei obiettivi professionali? Come questi si rapportano alla mia immagine? In che modo la mia immagine può aiutarmi a conseguirli?
  • Ultimo non ultimo: ciò che sto trasmettendo con la mia immagine, è utile al mio pubblico?

Ritengo che così come l’immagine sia qualcosa di strettamente personale, al tempo stesso il modo in cui questa si coltiva, rapporta e concorre al raggiungimento dei propri obiettivi di lavoro sia una miscela talmente individuale che difficilmente si possono stabilire dei parametri validi per tutti, sempre e ovunque.

Laddove viene esclusivamente soddisfatto il proprio ego, il proprio esibizionismo, la propria voglia di apparire, senza nulla offrire al pubblico, dubito che possa apportare una qualche utilità ad esso e contribuire a coltivare un Personal Branding efficace in termini professionali.

Quando non si vuole apparire per vergogna, imbarazzo, riservatezza, credo che un minimo di sforzo per metterci la faccia, in modo da apparire riconoscibile, e fare in modo che l’altro, con la massima trasparenza si affidi a noi, si possa e si debba compiere. Del resto: noi saremmo disposti a fare affari con persone che non vediamo in volto, che si nascondono, per un motivo o per l’altro?

Se un pizzico di mistero, di non tutto svelato può rendere un brand ammaliante, affascinante, stimolatore della curiosità e dell’indagine, e caratterizzato proprio per questo, d’altra parte un brand fin troppo palesato può rischiare di allontanare. Ecco che tra gli estremi una sapiente miscela di visto-non visto può rappresentare una sfida da conseguire che ciascuno deve poter vincere a suo modo, per fare presa sul proprio pubblico e offrirgli qualcosa che possa essere non solo gradevole ma in qualche modo utile.
Per fare questo quel che conta è sperimentare, fino a trovare la propria strada ottimale, per un momento preciso, che nel tempo o con diversi pubblici può anche evolvere.

 

Per approfondire:

 

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