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luca barboni
Web Marketing

Luca Bardoni, il Growth Hacker e la crescita aziendale

Nuove forme di crescita per le startup – Intervista a Luca Barboni
Di Anna Fata

Growth Hacking: espressioni sempre più diffuse nel Web e non solo. Siamo sicuri di sapere esattamente di cosa si tratti? E soprattutto sappiamo a chi o cosa potrebbe essere utile il Growth Hacking?

Oggi, il Web può offrire un’ampia mole di dati che, se muniti delle necessarie competenze tecniche e umane per poterli interpretare, possono rivoluzionare il mondo del marketing, della comunicazione, delle vendite, dell’imprenditoria.

Sean Ellis nel luglio 2010 ha coniato l’espressione ormai ampiamente diffusa di Growth Hacking con il fine di ripensare il ruolo del marketing nella crescita delle startup.

Negli anni diversi autori stranieri hanno scritto ampiamente sull’argomento. Il libro “Growth Hacking – Fai crescere la tua impresa online” di Luca Barboni e Federico Simonetti si inserisce in un filone altamente prolifico e vivace.

 

growth hacking

 

Gli Autori definiscono chiaramente cosa è e non è il Growth Hacking, la sua storia, le finalità, le procedure, gli strumenti, concretizzando il tutto con interessanti e utili case history.

Tra il marketer e il programmatore il Growth Hacker è una delle tante professioni che il web ha contribuito a delineare e che non esisteva fino ad una decina di anni fa.

Per approfondire l’argomento abbiamo rivolto alcune domande a Luca Barboni:

Qual è l’iter formativo per diventare Growth Hacker?

R:  Non esiste un percorso predefinito. La figura del Growth Hacker si inserisce nel trend dei professionisti “T-shaped”, ovvero con uno skill set a forma di “T”. La parte orizzontale della T corrisponde alle competenze trasversali di alto livello tra cui design, programmazione, analisi dei dati, storytelling ecc. che consentono al growth hacker di confrontarsi con gli altri reparti dell’azienda. La parte verticale della T invece riguarda il marketing: la conoscenza approfondita di canali specifici come Facebook Ads, Email Marketing, Content, o simili, che rendono il Growth Hacker capace di sporcarsi le mani. Questo non significa che chi si occupa di Growth Hacking sia un tuttofare, ma semplicemente che per perseguire una visione olistica di crescita aziendale serve una grande apertura alla multidisciplinarietà. Il mio collega Raffaele ha contribuito al libro con un intervento proprio su questo tema.
Oltre a questo background variegato, il growth hacker si avvale di una serie di framework molti specifici.
Io e Federico Simonetti abbiamo scritto il primo libro italiano sul Growth Hacking proprio per fornire un’introduzione a questo metodo di lavoro, presentando sia le basi teoriche che i principali strumenti operativi per metterlo in pratica.
Oltre a questo stanno nascendo dei percorsi formativi interamente dedicati al tema, tra cui la Masterclass Online realizzata con i ragazzi di Lacerba.io.

Come fa un’azienda a capire che può avere bisogno di un Growth Hacker?

R:  Quando sei un imprenditore è facile capire quando c’è qualcosa che non va. Molto spesso capita di aver creato un nuovo prodotto, averlo lanciato, e nonostante questo ritrovarsi a dover letteralmente lottare perché venga usato da coloro che pensiamo essere i nostri clienti. A quel punto fare Marketing diventa un maldestro tentativo di lavaggio del cervello, o ancora peggio, spam.

Il mantra del growth hacking invece, è che la peggiore decisione di marketing che tu possa fare è quella di fare marketing su un prodotto che non vuole nessuno.

Questo significa che sin dal 1° giorno bisogna pensare al prodotto avendo già il marketing in mente. E dopo essersi assicurati che il prodotto è realmente in grado di soddisfare i nostri clienti, preoccuparsi di scalare la distribuzione raggiungendo sempre più persone e aggredendo nuovi mercati.

Il growth hacker può intervenire in entrambi i momenti, e la sua forza è proprio la capacità di identificare quale fase di vita stia vivendo l’azienda, e organizzare il lavoro per arrivare alla fase successiva. Il tutto, non basandosi sull’intuizione, ma su esperimenti, dati e metodo scientifico.

Come opera concretamente un Growth Hacker in azienda?

R:  Il lavoro del growth hacker è quello di fare da “project manager” della crescita. Ovvero gestire il processo, il team e gli strumenti con cui vengono effettuati test continuamente.
Nella pratica si tratta di:

  • discutere col ceo i business goal e le varie milestone
  • mappare i funnel di marketing così da avere pronto un modello di attribuzione per le attività di marketing
  • gestire ideazione, selezione e progettazione dei test
  • individuare i tool migliori per svolgere i suddetti test
  • monitorare le metriche chiave e analizzare i dati generati
  • fare riunioni col team per condividere i risultati dei test
  • documentare il tutto.

Per finire, chi fa Growth Hacking deve assicurarsi che tutte queste operazioni vengano svolte come un grande meccanismo in continuo movimento che alimenti la crescita aziendale (un motore di crescita, o “growth engine”).

Che possibilità di lavoro per il presente e il futuro può avere un Growth Hacker?

R:  Il primo posto dove andrei a fare esperienza sono le startup. Il Growth Hacking affonda le sue radici nell’imprenditoria “Lean”, e le startup sono un tipo specifico di azienda dove cicli di sperimentazione rapida, attenzione ai dati e team cross-funzionali non sono nulla di nuovo. Perciò possiamo dire che sono il mercato più esposto e al contempo vicino al Growth Hacking.

Questo non significa però che il Growth Hacking non possa essere applicato a realtà più strutturate! Anzi: esempi come il recente caso Coca Cola, o il modus operandi di ex-startup come Google e Facebook ci insegnano che questo mindset può essere portato anche all’interno di grandi Corporate.
La differenza sta nel fatto che ristrutturare processi in un team da 10 persone, che non in una multinazionale con centinaia di dipendenti, richiede far fronte a diversi gradi di complessità e diverse tempistiche prima di cominciare a vedere risultati 😛

Cosa ti piace di più del lavoro di Growth Hacking, perché lo consiglieresti o lo sconsiglieresti a chi vorrebbe intraprenderlo?

R:  Gli elementi che preferisco di più sono due: l’imprenditorialità e la trasparenza.
Il growth hacker a tutti gli effetti è un “imprenditore del marketing” che ha la libertà di testare strategie non convenzionali, ma anche la responsabilità di assumersi grandi rischi.
Viceversa la trasparenza è legata alla grande attenzione ai dati, all’analisi, la lettura e la condivisione delle informazioni. Questo significa che i risultati (ma anche i fallimenti) devono essere dimostrabili.

Non basta essere dei bravi pubblicitari o dei bravi marketer: bisogna saper lavorare con persone con background completamente diversi, saper gestire pressioni, rimanere scettici nei confronti delle nostre intuizioni, e applicare il metodo con disciplina.
Se non sai accettare il fallimento, se credi troppo nel potere delle idee (senza un fondamento di dati), se non hai una sete insaziabile di informazioni, se non sei pronto a fare tuoi concetti anche lontani dal tuo percorso professionale, allora dovresti lasciar fare growth hacking a qualcun altro.

Come evolverà, a tuo avviso, questa professione e il marketing in generale?

R:  Penso che stiamo assistendo alla polarizzazione del marketing come professione tecnologica e analitica piuttosto che creativa. Il Growth Hacking, a livello di processi, è perfettamente allineato a questo trend, ma è solo la punta dell’iceberg. Già dal 2014 si sente parlare di “Chief Marketing Technologist” e dei benefici provenienti dall’integrazione tra IT e Marketing. E questo è un trend che crescerà esponenzialmente nei prossimi anni. La parte creativa, la psicologia dell’utente e lo storytelling avranno sempre il loro posto a livello di branding, posizionamento e strategie di influenza dei mercati a lungo termine. Gran parte del marketing diretto sarà invece affidato ad Intelligenza Artificiale, Big Data, e Marketing Automation.

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