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Gli ingredienti essenziali dello StoryTelling

Intervista a Massimo Lico*
di Anna Fata

Da che mondo è mondo, si raccontano storie. Miti, tradizioni, usi, costumi, vita privata, professionale, tutto ciò che riguarda l’essere umano, nella sua individualità e socialità, è costituito da storie. Storie raccontate, gridate, sussurrate, evocate, scritte, affidate ai più moderni strumenti tecnologici, cambiano le modalità, ma le narrazioni sopravvivono, più solide che mai.

Come mai l’umanità possiede questa tendenza intrinseca ad affidarsi alla narrazione? Come possiamo avvalercene in termini professionali, per coltivare il nostro Personal Branding, per suscitare l’attenzione, il coinvolgimento, l’acquisto dei nostri servizi e/o prodotti? In che modo il corpo può fungere da strumento di StoryTelling? Chi è il bravo StoryTeller?

Di questo e molto altro parliamo con Massimo Lico, Visual StoryTelling Specialist.

massimo lico

 

D: Cos’è lo StoryTelling?

R: Ciao Anna, grazie per questa domanda, è opportuno infatti chiarire i termini prima di usarli. Spesso si legge che lo storytelling è “l’arte di raccontare una storia“, così in maniera molto semplice.
Ogni volta ripenso a quanto sia importante tornare ad impadronirsi dei significati etimologici, storytelling è una parola composta da story – racconto – e telling – narrare – quindi la sua corretta traduzione è “narrare mediante racconti”.
Secondo Gérarde Genette, uno dei massimi esponenti della narratologia, di scuola strutturalista, la narrazione corrisponde all’atto con cui produciamo il racconto ed il racconto corrisponde alla forma assunta dal contenuto oggetto della narrazione (ad esempio le scene di un film in cui si svolge il racconto), infine la storia intesa come insieme di eventi – che si svolgono in un ordine cronologico i cui elementi sono le azioni e gli avvenimenti – e di esistenti – rappresentati dai personaggi immersi nei loro ambienti – è il contenuto del racconto.

Ma se tutto questo è, sebbene in estrema sintesi, alla base di una teoria (e pratica) quale è la narratologia, ed è importante per capire i termini prima ancora di usarli, cosa possiamo aggiungere di nuovo e di originale per rispondere a questa fondamentale domanda? Personalmente ho sviluppato un pensiero a riguardo, ma non ho la presunzione di fornire la definizione “magna” di storytelling, non siamo di fronte ad una scienza esatta, nella quale vale il principio scientifico della riproducibilità, perché c’è un elemento fondamentale responsabile di questa peculiare aleatorietà, il pubblico.

Il processo comunicativo che attuiamo nel fare storytelling deve guardare al pubblico, è ad esso che ci rivolgiamo, è il modo in cui narriamo (una storia, un fatto, esponiamo dei dati, coinvolgiamo il management di un’azienda,…) che fa la differenza. Nel fare storytelling dobbiamo regalare al pubblico un‘esperienza memorabile, dobbiamo coinvolgerlo in senso emotivo, perché è l’attivazione delle aree cerebrali deputate alla percezione delle emozioni che determina la memorabilità del racconto e dell’esperienza da lui esperita.
Per tutta la durata del racconto il pubblico deve vivere un’esperienza totalmente immersiva ed emotivamente coinvolgente.
Il National Storytelling Network riconosce questa definizione: “l’arte di trasmettere attraverso le parole, i movimenti del corpo, la modulazione della voce e la gestualità le immagini di una storia davanti ad un pubblico specifico”.
Ecco, credo che alla fine in questa definizione siano racchiusi i concetti che ho espresso sopra.

 

D: Nello specifico, cosa si intende per Visual StoryTelling?

R: Se lo storytelling ha un intimo legame con la narratologia, il visual storytelling è una materia multidisciplinare. Innanzitutto c’è da dire che i meccanismi psicologico/percettivi attivati dallo storytelling – potremo dire che vengono coinvolti i 5 sensi, come del resto anche Marshall McLuhan sostiene – vengono amplificati dal visual storytelling e possiamo estendere quanto detto per lo storytelling, con l’introduzione del concetto di immagine, nella più ampia accezione, quindi immagini fisse e/o in movimento, originate dai vari supporti.
Quindi quel processo comunicativo attuato nello storytelling si cristallizza qui ricorrendo alle immagini, ma la parola chiave resta sempre quella, emozione.

 

D: In che modo lo StoryTelling può aiutare a costruire il proprio Personal Branding per un professionista, manager, imprenditore?

R: La narrazione è una funzione della nostra mente, ci permette di organizzare il nostro mondo interiore e di attribuire significato al mondo esterno, teatro dell’esistenza umana.

La mente ed il suo sviluppo non sono separati dal contesto culturale in cui l’uomo vive, questo significa che la mente crea cultura nella misura in cui si instaura una mutua relazione con gli altri, i nostri pubblici.

Da questa relazione nasce una negoziazione di storie, create anzi a questo punto direi co-create e condivise, storie che diventano patrimonio comune e che generano mutua percezione. Questo aspetto, come si può intuire è molto importante in ottica Personal Branding, dato che parliamo di come ci facciamo percepire dai nostri pubblici e del perché essi dovrebbero sceglierci rispetto agli altri, parliamo di trasmettere e far percepire, in modo efficace ed impattante, la nostra unicità.

C’è poi un altro aspetto importante, riguarda l’umanizzazione del brand.
Oggi c’è sempre più bisogno di umanizzare il brand, e le aziende condotte da manager illuminati già lo stanno facendo.
Far esperire al pubblico, sia interno che esterno, una percezione del brand a lui più vicina, è un obbiettivo che con lo storytelling possiamo raggiungere in maniera molto potente.

 

D: In che modo il corpo, con il suo modo di porsi, i gesti e tutto quello che a pelle emerge, spesso in modo inconsapevole, può diventare strumento di StoryTelling?

R: Il corpo è nativamente predisposto alla narrazione, tutti sappiamo che esiste il linguaggio del corpo, che non ha solo la finalità di trasmissione del messaggio (la postura o la gesticolazione ad esempio sono segni di comunicazione cui si danno differenti significati in senso connotativo), esiste anche un uso del corpo per raccontare, comunicare, pensiamo allo sguardo intenso, magari ripreso con un primissimo piano, oppure il modo di camminare incerto di una persona, quanta storia della sua vita può esser capace di esprimere.

 

D: Come lo StoryTelling può indurre all’acquisto di un servizio e/o prodotto?

R: Non parlerei esattamente di induzione, nemmeno di persuasione, è provato scientificamente che lo storytelling attiva determinare aree cerebrali che sono deputate al controllo delle decisioni di acquisto, ma qui entriamo nel campo delle neuroscienze e del neuromarketing come loro applicazione specifica alle strategie di marketing ed occorrono sofisticate apparecchiature di neuroimaging funzionale che non tutte le aziende hanno a disposizione.
Direi che la via è anche molto più semplice, per certi versi, nel senso che non occorre scomodare pratiche di un certo livello.
Come abbiamo detto sono le storie alla fine le sane portatrici di valori, ma da sole non bastano a se stesse, lo storytelling mette in moto una condivisione e co-creazione di valori nei quali, se fatto bene, i pubblici o gli stakeholders si immedesimano e riconoscono.
Questo permette di instaurare un legame duraturo che prevale le logiche di downpricing competitivo alle quali siamo stati abituati e si sceglie il brand nei cui valori ci identifichiamo (valori etici, sociali, valori legati all’adozione di pratiche rispettose dell’ambiente, ecc…), la battaglia si gioca sul piano non della pubblicità – che si quella è persuasivo/induttiva, ma sul piano della condivisione di valori e storie, reciproche, che li incarnano.

 

D: Quali sono gli ingredienti essenziali per costruire una buona storia per il Web?

R: Il web è un ambiente in rapida espansione, un luogo non luogo dove si va di corsa, si cercano informazioni su più canali simultaneamente, magari con decine di schede aperte sul nostro browser preferito, spesso il filtro del monitor inganna, ma personalmente – premetto che non amo dare ricette o indicazioni di metodo e di modo – credo che alla fine non ci si debba allontanare dall’autenticità che ci caratterizza nel mondo fisico. Il web nasce e resta, almeno per ora, come un medium. Poi nello specifico dei vari canali bisogna studiarne a fondo le caratteristiche, perché il mezzo, web compreso, produce effetti pervasivi e mutazioni a livello antropologico profonde.

 

D: Arrivati a questo punto, se una persona desidera diventare un bravo StoryTeller, che percorso dovrebbe seguire?

R: Ad oggi non esiste un corso di laurea che produca la figura dello storytelling specialist né del visual storytelling specialist, ma ci sono iniziative private di formazione in questo ambito, alcune degne di rilievo per le caratteristiche dell’offerta formativa, ad esempio nell’ambito dei master, io stesso collaboro con l’Unicatt di Milano ma organizzo anche attività di formazione in prima persona o con altri colleghi di cui ho particolare stima, poi ci sono anche altre offerte molto più superficiali ed improvvisate.
Ci vuole molto studio teorico partendo dalle materie fondanti, andare oltre gli approcci istintuali di cui purtroppo soffre una materia non ancora inquadrata in senso giuridico e poi applicazione pratica, sensibilità e sviluppo di un’abilità fondamentale che in parte è un dono di natura in parte si affina con la pratica, la capacità di “far vedere” con l’occhio della mente le scene della narrazione e qui torniamo all’esperienza filmica di cui ho parlato all’inizio.

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